Ti chiamerò

Cena di lavoro. Grande entusiasmo, proclami iperbolici. Il mio capo promette di spaccare il mondo, pur di accaparrarsi i potenziali nuovi clienti.

Tu sei seduta al tavolo adiacente al nostro. Non saprei dire se sono stato io, a cominciare, oppure tu. Da chi è partito il primo contatto, quello che ci ha obbligati a non tenere lontani gli sguardi per più di pochi secondi. Giochiamo a ping pong: pallina nel mio campo, pallina nel tuo campo.

Quando diciamo qualche parola tanto per ricordare la nostra presenza ai rispettivi tavoli, quando si frappone un cameriere con i piatti fumanti, la pallina finisce in rete. Ma puntualmente uno di noi due la raccoglie e la partita ricomincia.

Ping. Pong.

Accanto a te c’è un uomo distinto, attraente. A inizio cena ha osservato con minuzia le posate e le ha pulite una per una con il tovagliolo. Il resto della tavolata non lo vedo, chi è di spalle, chi è impallato da una testa, da una capigliatura. Non che me ne importi, di loro.

Tu non riesci a smettere di guardarmi. Questa sfrontatezza, questa vulnerabilità mi rendono sfrontato come te, vulnerabile come te. Neanche io riesco a smettere. Perché ci incontriamo solo adesso? Perché non ho ancora mai giocato con i riccioli che ti ricadono sul collo?

Il tuo uomo – che di tanto intanto ti sussurra qualcosa piegandosi verso il tuo orecchio, sfiorandolo con le labbra, e mentre lo fa tu guardi me – ha pulito anche il cucchiaino del dolce e quello del caffè. Tu e lui sembrate al centro dell’attenzione della vostra tavolata. A un certo punto, gli altri vi fanno un brindisi. Mentre bevi dal calice, tu guardi me.

Vi alzate prima di noi. Continuo a sentire il tuo sguardo a lungo, e rabbrividisco. Sei svanita oltre la porta, nella sera umida che appanna i vetri del ristorante. Finalmente il conto arriva anche al nostro tavolo, finalmente il mio capo può fare il suo numero finale – ha conquistato, tra una portata e l’altra, i nuovi clienti senza il benché minimo aiuto da parte mia –, finalmente ci alziamo. Non voglio passarci un altro minuto, in questo locale. So che non ci tornerò più. Non tornerò dove è morto un sogno.

Dopo i saluti, dopo gli ultimi sorrisi forzati, raggiungo la macchina. C’è un foglio sotto il tergicristallo. È il volantino di un negozio di fiori per matrimoni. Da una parte c’è una galleria di immagini floreali, ma dall’altra c’è un numero di telefono scritto a penna, frettoloso, quasi uno scarabocchio.

Capisco subito che sei stata tu. Forse mi hai visto arrivare, forse la mia abitudine, quando sono al ristorante, di posare le chiavi della macchina sul tavolo ti ha dato un indizio.

Ti chiamerò e ti chiederò come hai fatto a lasciarmi il biglietto. Sarà una storia divertente, ne sono sicuro, e rideremo. Sarà la nostra prima risata insieme. Poi, dopo essere stata in silenzio, tu mi dirai di non essere il tipo che fa queste cose, e io ti dirò di sentire già che siamo destinati ad amarci.