La casa sul Golfo
Di quella porta chiusa, avevo perso la chiave.
Non mettevo piede in quella casa da molti anni. Vi avevo trascorso tutte le vacanze estive, fino all’università, quando avevo deciso di andare a studiare al di là dell’oceano. Dopo la laurea avevo subito trovato lavoro, e così ero rimasto. Vivevo in un altissimo grattacielo di vetro e di acciaio, e il mio ufficio era in un grattacielo ancora più alto, tanto alto da toccare le nubi.
Nonostante il tempo passato, la casa era in buone condizioni. Era bastato spalancare tutte le finestre perché l’aria del Golfo cancellasse l’odore di stantio. Avevo chiuso gli occhi ed ero tornato ragazzo, mia madre cantava in cucina mentre preparava il pranzo, mio padre ritoccava la vernice della ringhiera del terrazzo, rosicchiata dalla salsedine.
Mi dispiaceva aprire quella porta con la forza, rischiando di rovinarla, e così chiamai un fabbro.
“Cosa c’è, qui dietro?” chiese, per curiosità, per fare due chiacchiere mentre armeggiava con i suoi strumenti.
Già, cosa c’era?
Le spensierate estati, le amicizie che sembravano destinate a durare in eterno, il primo, indimenticabile amore, l’incontenibile felicità quando, dopo una rincorsa a perdifiato, mi tuffavo tra le onde da uno scoglio alto tre metri al massimo, ma che a me pareva il tetto del mondo.
“Niente” risposi.
E infatti non c’era niente: solo un ripostiglio vuoto, qualche ragnatela. E tanti ricordi, che avevo messo lì, in bell’ordine per averli a portata di mano, ma che poi, senza accorgermene, avevo dimenticato. Quella porta adesso è sempre aperta, e nel ripostiglio ci ho messo uno specchio che mi restituisce un’immagine di me più felice, specialmente in serate come questa, quando, con la mia famiglia e i miei amici, ceniamo sulla terrazza che si affaccia sul Golfo, acceso dai vividi colori del tramonto.
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